Dal Vangelo secondo Matteo
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: «Avverrà come a un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno; poi partì.
Subito colui che aveva ricevuto cinque talenti andò a impiegarli, e ne guadagnò altri cinque. Così anche quello che ne aveva ricevuti due, ne guadagnò altri due. Colui invece che aveva ricevuto un solo talento, andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone. Dopo molto tempo il padrone di quei servi tornò e volle regolare i conti con loro. Si presentò colui che aveva ricevuto cinque talenti e ne portò altri cinque, dicendo: “Signore, mi hai consegnato cinque talenti; ecco, ne ho guadagnati altri cinque”. “Bene, servo buono e fedele – gli disse il suo padrone –, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone”. Si presentò poi colui che aveva ricevuto due talenti e disse: “Signore, mi hai consegnato due talenti; ecco, ne ho guadagnati altri due”. “Bene, servo buono e fedele – gli disse il suo padrone –, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone”.
Si presentò infine anche colui che aveva ricevuto un solo talento e disse: “Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso. Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra: ecco ciò che è tuo”. Il padrone gli rispose: “Servo malvagio e pigro, tu sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l’interesse. Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti. Perché a chiunque ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha, verrà tolto anche quello che ha. E il servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti”».
Nell’approssimarsi della conclusione dell’anno liturgico e dell’inizio dell’Avvento si susseguono con insistenza nelle letture gli inviti alla vigilanza. La parabola delle vergini della scorsa domenica si concludeva con un invito a vegliare (cf. Mt 25,13). Il versetto seguente, che introduce la pericope evangelica di questa domenica, riprende quasi senza soluzione di continuità: «Avverrà infatti come …». Ci dev’essere un nesso tra le due cose, tra l’invito a vegliare e la parabola così introdotta. Che cosa significa «vegliare» (gregoréo)? La parabola precedente conteneva già una risposta: sapersi equipaggiare per un tempo lungo. Ma da essa appariva già chiaro che «vegliare» non è solo stare svegli durante la notte: tutte quelle vergini si erano infatti addormentate, senza essere rimproverate per questo. «Come infatti» vegliare? Matteo continua a porsi lo stesso problema anche nella parabola dei talenti, e la sua risposta è questa volta che la vigilanza deve ispirare le nostre occupazioni quotidiane.
Un uomo che si prepara a una lunga assenza (forse per commerci in paesi lontani) affida ai suoi servi il suo capitale (i «talenti») perché non rimanga infruttuoso, ma i servi dovranno renderne conto. Due di loro «investono» il capitale ricevuto – non sappiamo come – e lo raddoppiano. Il terzo servo lo sotterra (cf. Mt 25,16- 18). Ai nostri occhi sembra un’azione del tutto irragionevole, ma seppellire il danaro era una forma di assicurazione contro i ladri. Come scrive infatti uno dei trattati della tradizione ebraica codificata nella Mishnah, «il denaro non può essere custodito con sicurezza se non sotto terra» (Bava Metzia 42a). «Dopo molto tempo» (Mt 25,19) il padrone ritorna, e qui finisce il racconto in terza persona del narratore, mentre la lezione che vuol darci la parabola viene affidata al dialogo tra il padrone e ciascuno dei suoi servi. I primi due servi vengono lodati e definiti buoni e fedeli (cf. v. 23). Essi hanno ben operato negli affari del padrone, cioè il «poco», che non è poi così misero: un talento equivale a diecimila denari (cf. Mt 18,24) e con duecento denari si sfamano cinquemila persone (cf. Mc 6,37). Ma resta poco se messo a confronto con il molto, che equivale all’ingresso nella «gioia» del padrone, o in altri termini l’accesso al regno (cf. Mt 8,11). È però nell’esempio negativo (come nel caso delle vergini stolte) che emerge il senso della parabola. Il terzo servo confessa di aver agito per paura: ha del suo signore un’idea perversa, di un uomo duro e severo. È sempre la natura del rapporto con il Signore che determina il comportamento quotidiano, l’assunzione di responsabilità oppure la fuga. In realtà, questo servo non ha mai accettato il dono che gli è stato fatto, non ha mai riconosciuto la gratuità del suo padrone: gli restituisce quello che è suo, non vuole avere parte con lui. È paralizzato dalla paura di essere giudicato.
Pensa di aver agito in tutta correttezza, restituendo il talento ricevuto, ma di fatto è venuto meno alla fiducia che era stata posta in lui, non è stato «fedele» come gli altri. Questa è una parabola del giudizio, non una parabola della misericordia (cf. Mt 18,23ss), ma neppure in sede giudiziale è lecito dire che il Signore sia «duro». È il servo stesso che, non avendo fatto nulla, si è privato anche di quello che aveva. Il giudizio se lo è dato da sé: è un servo «inutile» (achreîos, v. 30), un aggettivo che in Luca, come abbiamo visto, ha un senso positivo (cf. Lc 17,10), ma non in questo contesto per Matteo. La vigilanza non è un’attesa paralizzante del giudizio, ma è usare dei doni che Dio ci ha fatto rendendoli dono anche per gli altri, far fruttare le «poche cose» di cui disponiamo.
(Messa e preghiera quotidiana, ed. Dehoniane Bologna, pp. 188-191)